Le fissazioni della tarda dittatura

Di Elidor Mëhilli

Un recente studio di Ardian Vehbiu, scritto in occasione della pubblicazione del libro Stranieri nell’Albania rossa — di due autori italiani in missione presso l’ambasciata d’Italia a Tirana nel 1981 — parla di tre tipi di isolamento nella quotidianità della tarda dittatura albanese. È noto che a quel tempo il paese evitava all’estremo il contatto fisico con il mondo al di là dei confini nazionali.

Ciò non significa che nulla di “proibito” riuscisse a penetrare, argomento che è stato approfondito anche in altri testi di Vehbiu. Al contrario, gli archivi albanesi chiariscono che un numero limitato di oggetti e di persone straniere entrava, ma che i filtri erano arbitrari, che gli uomini degli apparati seguivano accuratamente questo aspetto, che il partito e lo stato si mobilizzavano di volta in volta.

Vehbiu riporta l’attenzione anche su un altro tipo di isolamento – riflesso psico-sociale per fuggire mentalmente in una realtà mediaticamente confezionata come fantasia italiana (e non solo, poiché i canali italiani trasmettevano anche soggetti americani). Questa realtà veniva vissuta dagli albanesi come distaccata da quei pochissimi italiani in carne ed ossa che si trovavano a Tirana.

Io stesso ho vissuto la fatale discrepanza tra l’Italia nella mente albanese e gli italiani molto più tardi, nei primi anni 2000, il che significa che la dinamica è sopravvissuta alla “chiusura” del comunismo. L’isolamento albanese, quindi, non si è concluso come per magia nel 1991, ma questo è un altro discorso. Spesso gli italiani che incontravo in Occidente non avevano vissuto l’Italia dei primi anni ’90 così intensamente come avevo fatto io attraverso i media.

Gli stranieri che venivano in Albania durante la tarda dittatura vivevano anch’essi distanti dalla realtà locale. È importante il trattamento differenziato che Vehbiu postula tra i vari tipi di isolamento. C’è ancora molto da fare in questo senso; a me l’isolamento come parola-concetto non è sembrato soddisfacente (anche se non ho potuto evitare di usarlo). Ho affrontato questo tema in un contesto diverso, quello della sfera cinematografica della Guerra Fredda come proiezione mentale e geografica paradossale, con un lavoro pubblicato su una rivista professionale di punta specializzata in questo tipo di studi negli Stati Uniti.

Questi approcci non sono facilmente utilizzabili nell’ambiente albanese – fin quando il passato comunista continuerà ad essere trattato per forza o come terrore rosso con status e meme su Facebook e imprecazioni con varie inclinazioni parentali, o litigi ciechi sulle formazioni nazionaliste o sulla data di ritirata dei tedeschi. Comunque sia …

Vorrei aggiungere tre note all’argomento. In primo luogo, un intervento cronologico che credo importi al di là della periodizzazione. Penso che valga la pena soffermarsi più specificamente sulla connessione tra le relazioni estere ufficiali (la Cina, il “mondo estero”, “l’Occidente”) e le politiche di chiusura culturale interna, che di fatto precedono la rottura con la Cina alla fine degli anni ’70.

L’elaborazione del modello delle “manifestazioni di stili di vita stranieri” in Albania riguarda molto tempo prima rispetto a quanto presentato finora. Tuttavia, è vero che dopo l’etichettatura del “liberalismo” come problema chiave nel 1973, l’elemento “straniero” ha cominciato ad essere ricercato in modo più dettagliato nei corpi umani. Nel maggio di quell’anno, ad esempio, furono inviati ordini per classificare l’abbigliamento inappropriato tra gli stranieri che entravano nel territorio albanese.

Anche il corpo diplomatico era un organismo del quale doveva essere identificato l’elemento straniero. Attraverso i diplomatici qualcosa entrava dall’Occidente, e non necessariamente secondo la legge (e le restrizioni) delle onde televisive, dei caprici delle trasmissioni radiofoniche o del tempo. Tenuta staccata dalla realtà locale, questo mini-mondo di “stranieri” a Tirana era costretto a flirtare con se stesso, a inventarsi qualche avventura oltre le restrizioni.

Illustro questo secondo punto con una relazione che ho avuto tra le mani qualche giorno fa. Il documento, classificato con le iniziali “Segreto” del Ministero degli affari interni, è stato inviato a Ramiz Alia il 13 marzo 1975 e porta il titolo “Sull’abbigliamento, gli atteggiamenti e l’aspetto esteriore del personale delle missioni diplomatiche e commerciali estere dei paesi capitalisti-revisionisti”.

Secondo le norme del ‘73, gli stranieri con abiti e sembianze che “propagano lo stile di vita borghese e revisionista” non potevano entrare in Albania. Ma le regole facevano un’eccezione per i diplomatici stranieri e le loro famiglie.

“Questo non ci sembra giusto”, si era lamentato Kadri Hazbiu, “perché, tra loro, ci sono molte persone che non solo influiscono negativamente sull’educazione dei nostri giovani, ma suscitano anche malcontento tra gli altri stranieri, che spesso ci chiedono: ‘Perché non applicate le stesse regole per tutti gli stranieri?’”

I diplomatici stranieri, veniva annotato, erano ossessionati dalla moda. C’erano tra loro persone che tenevano “basette e capelli lunghi, pantaloni da cowboy, mini e maxi gonne”. Hazbiu li riporta per nome e nazionalità, sottolineando in ciascuno l’elemento “straniero”: donne ceche che “provocavano” con minigonne e pantaloni (e una che “aveva avuto un rapporto intimo in macchina” con l’autista dell’ambasciata tedesca); le polacche che baciano funzionari dell’ambasciata turca al hotel Dajti; tedeschi, greci e italiani con i capelli lunghi e abiti stravaganti.

Fino al ‘75, gli stranieri a Rinas si spogliavano nei bagni dell’aeroporto, mentre la barbieria non era adeguata. A questo punto veniva richiesto che tutti i valichi, in particolare quello di Rinas, fossero “dotati di barbierie e di appositi spogliatoi”.

È interessante il fatto che Hazbiu volesse che l’ordine di radersi e di cambiarsi d’abito a Rinas non fosse dato dai militari (perché “le misure assumono un carattere poliziesco”). Sarebbe toccato ai doganieri spiegare, “con tatto e discrezione” le norme sull’aspetto esteriore. A quanto sembra, questa proposta non era condivisa dai funzionari commerciali, il che significa che c’era una sorta di imbarazzo amministrativo su fino a che punto si sarebbe dovuto disciplinare quanto di straniero cercava di entrare in Albania.

Che fare? Hazbiu chiedeva che il Ministero degli Affari Esteri informasse le missioni estere che queste tendenze erano state “notate dalla nostra opinione pubblica” e che erano “contrarie all’etica e alle norme della nostra morale socialista.” [1] Le ambasciate albanesi non dovevano rilasciare visti d’ingresso agli stranieri che si presentavano in violazione con le norme albanesi.

Questo ci porta alla terza dinamica che vorrei evidenziare in relazione alla disciplina dello straniero (al di là dell'”isolamento” come categoria grab bag). Quello che è sfuggito all’analisi di questi fenomeni, a mio avviso, è il fatto che veniva disciplinato non solo l’Occidente e i “nemici” che ne derivavano, ma anche gli stranieri amici del cuore. Succede che erroneamente identifichiamo la fissazione degli albanesi con l’Occidente nella loro vita quotidiana con le fissazioni del regime stesso.

Anche i marxisti-leninisti provenienti dall’America latina, dall’Australia, dalla Germania, dalla Francia, ecc. furono tenuti sotto controllo. Quindi, oltre all’“isolamento” che vale la pena di differenziare come concetto in Albania negli anni ’70-’80, vale la pena approfondire lo “straniero” come categoria che si allarga e si restringe a seconda di determinate esigenze. A quel punto le realtà non coincidevano necessariamente con il binomio Est-Ovest.

Gli ultracomunisti stranieri che arrivarono in Albania a quel tempo vivevano anch’essi al confine, attentamente monitorati, con una vita locale limitata. Nell’archivio del Comitato Centrale del Partito del Lavoro d’Albania, i fondi degli “amici” sono pieni di rapporti dettagliati fino a comprendere questioni familiari e intime di amici stranieri. (Alcuni di loro hanno pubblicato memorie degli anni passati a Tirana.) Vivevano anche in una sorta di quarantena, così come i libri, le riviste e gli abiti di moda che venivano consegnati a Rinas. Anzi, in un certo senso, la loro solitudine era categorica, perché si pensava che l’Albania fosse la loro speranza e salvezza ideologica.

[1] “Sull’abbigliamento, gli atteggiamenti e l’aspetto esteriore del personale delle missioni diplomatiche e commerciali estere dei paesi capitalisti-revisionisti”, 13 marzo 1975, Archivio Centrale Albanese F. 14/AP, Struktura, V. 1975, Dos. 484, fl. 1-4. Hysni Kapo ha lasciato una nota scritta a mano (datata 15 marzo 1975) dove dice che la questione avrebbe dovuto essere discussa con il Ministero degli Affari Esteri e decisa in sede governativa.

Traduzione di Alban Vercellotti Mesi dall’originale in albanese Fiksimet e diktaturës së vonë pubblicato nella rivista culturale “Peizazhe të fjalës”